L’arrivo in Argentina e’ stato tutto fuorche’ tranquillo. Dopo due ore scarse di sonno e due voli, presi al pelo, ero finalmente arrivato a Buenos Aires, “la Parigi del Sud America”.
Dopo aver vagato per l’aeroporto come uno zombie con il mio zaino, che con il passare delle settimane era diventato sempre piu’ pesante e ingombrante, ho ceduto alle richieste insistenti del primo tassista. Dopo averlo convinto ad abbassare il prezzo e a farsi pagare con un misto di dollari americani, soles peruviani e pesos cileni ci siamo diretti verso il centro.
Con l’avvicinarsi progressivo al cuore della citta’ ho notato una sorprendente somiglianza con una Milano estiva: lunghi viali alberati che si alternavano a piazze caratterizzate dall’onnipresente traffico cittadino.
Ero passato in un giorno da i 5 gradi della Terra del Fuoco a i 30 di Buenos Aries

Giunto nella Plaza Costitucion e pagato il tassista, ho preso il primo treno per La Plata, una cittadina universitaria poco distante da Buenos Aires. Qui mi sarei fermato per tre settimane a lavorare in un ostello del centro in cambio di un posto letto in una camerata collettiva.

Salito sul treno mi sedetti sul primo posto libero. Dopo essermi ripreso dallo stordimento generale, dovuto alla stanchezza e alla forte escursione termica, e dopo aver cercato di capire chi fossi e dove fossi diretto, mi resi conto di come gli occhi di tutti i passeggeri fossero rivolti su di me e sul mio ingombrante zaino.
Dopo pochi minuti caddi in quella che io chiamo la trappola del viaggiatore solo. A causa di un misto di stanchezza e spossatezza commisi l’errore di lasciarmi prendere dalla situazione e dalle emozioni e di staccare per un momento il mio cervello. Guardando il via vai di gente di ogni eta’ e provenienza che gridando cercavano di vendere ai passeggeri del treno tutto quello che avevano, da calze a pennarelli, cominciai a pensare.
Mi fece molta impressione il volto di una donna che, a piccoli passi con il suo bambino di pochi anni, urlando, cercava di vendere dei biscotti al cioccolato. Vidi nei suoi occhi la sofferenza di chi sa che alla fine della giornata non potra’ dare da mangiare a suo figlio e fui preso da una forte frustrazione e rabbia. Era come se avessi avuto davanti un pugile che mi stava riempiendo di pugni nello stomaco, mi chiesi senza trovare risposta come fosse possibile che alcune persone potessero vivere in questa situazione e nessuno facesse niente per aiutarle.
Avrei voluto urlare e andarmene ma decisi di rimanere seduto e zitto.
Sapevo troppo bene quello che lei provava; in Peru’ per 4 mesi avevo vissuto a stretto contatto con famiglie che a stento riuscivano a sopravvivere, che cercavano di fare tutto il possibile affinchè i propri figli potessero studiare ed essere in salute.
La cosa che’ fa più male era l’indifferenza di molte persone che davanti a una scena del genere voltano lo sguardo da un’altra parte pensando a qualcos’altro.
I miei pensieri e le mie domande interiori furono interrotte dalla chiamata della fermata: “Proxima estacion, La Plata”, dopo quasi un’ora e mezza di viaggio ero finalmente arrivato.
Pensavo di aver superato la parte piu’ difficile ma mi sbagliavo; senza internet e la possibilita’ di chiamare qualcuno, non avendo ancora il chip Argentino, dovetti rintracciare l’ostello con una piccola mappa.
Dopo un’ora, lo zaino che mi pesava sulla schiena e un calore terribile (quasi 35 gradi), la ricerca era diventata una dannata caccia all’ostello. Infine, riuscii a vedere una piccola scritta nascosta dagli alberi che diceva “EL INTERCULTURAL HOSTEL”, ero finalmente arrivato!

A prima vista sembrava un luogo molto tranquillo e rilassato, distante solo poche quadre dal centro. Un insieme di piccole stanze private e compartite che davano sulla sala da pranzo e la cucina centrali.

Gia’ dal primo giorno legai molto con gli altri volontari. Erano, per la maggior parte, ragazzi provenienti da tutto il Sud America che erano venuti a La Plata per studiare, visto che le universita’ pubbliche argentine, oltre ad avere un livello molto alto, sono anche gratuite.
Per risparmiare sull’alloggio, lavoravano per quattro giorni alla settimana per un totale di 20 ore come receptionisti nell’ostello, ricevendo gratuitamente un letto in una delle stanze compartite.

Parlandoci, mi resi conto di come fossi il piu’ giovane e come questi ragazzi, nonostante avessero piu’ di vent’anni, avrebbero iniziato l’universita’ l’anno successivo o che questo era il loro primo anno.
Questo mi portó a riflettere su quest’ultima cosa: pochi mesi prima stavo, quasi, decidendo di porre fine al mio sogno di un anno sabbatico per paura di dover “perdere” un anno e ora, in una piccola citta’ nell’entroterra argentino, mi trovo a vivere con delle persone che non solo non avevano ancora iniziato l’universita’ ma che erano anche molto piu’ grandi di me.
Una cosa, che per me rappresentava stupidamente un dilemma insormontabile, per loro, invece, era una cosa di poco conto.
Alloggiavo in una piccola stanza buia con altri due ragazzi: Christian, un colombiano che stava studiando economia, e Nacho, un argentino che studiava architettura.

Gia’ a partire dalla prima settimana iniziò il mio periodo di praticantato per apprendere l’arte del receptionista.
E’ stato un lavoro che da sempre mi ha stupito per il fatto che, sebbene possa sembrare un ruolo secondario , era lo scheletro portante dell’ostello.
Il lavoro, in se’, non era niente di esageratamente complicato: rimanere costantemente sorridente, rispondere alle chiamate e alle mail e fare le pulizie.
A partire dalla seconda settimana iniziai a lavorare da solo. Mi venne affidato il temutissimo “turno della notte”, un periodo di 9 ore (dalle 10 di sera alle 7 di mattina) in cui avrei dovuto cercare di lavorare combattendo contro la stanchezza e il desiderio di dormire.

Il problema principale era il fatto che, non essendoci un citofono per aprire la porta, ogni volta che una persona sarebbe dovuta uscire dall’ostello o entrarvi sarei dovuto scendere ad aprire. Un’operazione tutt’altro che simpatica se fatta alle tre e mezza del mattino.
Un’altra delle competenze del receptionista era quella della calma e della persuasione. Bisognava convincere le persone a rispettare le regole e a comportarsi bene durante la vita comunitaria. Qualcuno di voi potrebbe pensare: “Manco ci volesse una laurea per farlo!”. Sembra molto facile, fino a quando non ti ritrovi davanti un gruppo di ragazzi ubriachi che rientrano in ostello alle 4 del mattino pretendendo di poter continuare il loro festino in camerata e che cercano di parlarti in un misto di grugniti e gesti difficili da interpretare. A questo punto inizia il compito di persuasione e intermediazione tra i loro bisogni e il diritto agli ospiti dell’ostello a dormire tranquilli senza rumore.
In pochi giorni si era creato un cosi’ grande spirito di fratellanza nel gruppo che mi sembrava di essere tornato a casa. Sembrava una grande famiglia accomunata dal fatto che tutti fossimo, per un motivo o per l’altro, lontani da casa, per questo, ci ritrovavamo a cena tutti insieme a raccontarci come era andata la giornata e quali disavventure lavorative avessimo superato.
A volte uscivamo nel tardo pomeriggio a fare dei giri nel centro, distante pochi minuti a piedi, dove seduti in centro ci passavamo, uno alla volta, il famoso mate, che e’ un passaggio obbligato per accedere alla cultura Argentina. E’ una tradizione talmente sentita che se ti permetti di rifiutarlo o di mescolarlo con la piccola cannuccia di metallo, come ovviamente io inconsciamente avevo fatto, (GUAI A FARLO!) , da quel momento, loro ti negano il saluto.

Tre giorni alla settimana avevamo il cosi’ detto “dia de descanso”, letteralmente giorno di riposo. In queste giornate potevamo decidere cosa fare. Io ho cercato di sfruttare questi momenti per visitare Buenos Aires che dista solamente poco piu’ di un’ora di treno. Era una citta’ che aspettavo da tempo di vistare e per questo avevo grandi aspettative; a prima vista sembrava una capitale del centro Europa, con spazi molto grandi intervallati da viali alberati.

La consueta visita del centro storico parte da Plaza de Majo, il simbolo della citta’. Qui, ogni giovedi, si ritrovano le madri dei desaparecidos, oppositori politici o persone normali che erano state rapite e poi uccise durante gli anni della dittatura, che cercano tutt’oggi la verita’ riguardo ai loro cari. Buenos Aires, in generale, non si dimostra una citta’ che trasuda storia, come altre citta’ sudamericane, ma una citta’ da vivere.

La cosa che mi stupi’ negativamente, nonostante fosse il primo centro abitato ordinato e sicuro dopo molti mesi di viaggio, era la condizione di poverta’ dilagante in cui si trovava la maggior parte della popolazione. Per questo motivo, passeggiando tra le vie del centro, era molto comune vedere persone cercare nei cassonetti residui di cibo buttato o chiedere l’elemosina. La condizione di poverta’ in cui versa l’Argentina e’ dovuta principalmente alle scelte sconsiderate dei governi che hanno portato negli anni a grandi indebitamenti e alla grande svalutazione della valuta (il Pesos Argentino).
Quando ero ancora in Peru’ la borsa Argentina, da un giorno all’altro, per in sondaggio sui risultati delle elezioni che di sarebbero svolte nei successivi due mesi, aveva perso quasi il 40% del suo valore. E’ come se un giorno ti svegliassi e i 100 dollari che avevi nel portafoglio ora ne valgono 60.
Per questo ultimo motivo, Buenos Aires e’ una delle capitali, almeno per ora, piu’ economiche del Sud America; un biglietto a/r per il treno da e per La Plata e con un tragitto di quasi tre ore totali costa 48 pesos (0,65$).
In queste settimane ho potuto conoscere a fondo la cultura argentina e una delle cose che piu’ mi ha stupito e che non mi sarei aspettato da un paese cosi’ sviluppato e’ la condivisione di tutto cio’ che si ha. Non e’ solamente un buon costume ma una tradizione ben consolidata: prima fra tutte la condivisione del mate, un’altra e’ la loro calma e tranquillita’. Non come noi europei che siamo sempre in costante movimento e alla ricerca del successo o di raggiungere un obbiettivo, prendeno la vita cosi’ come viene, con tranquillita’ e rilassatezza.
Queste tre settimane sono state stupende. Ho potuto immergermi, ancora una volta, in una nuova cultura diversa della mia; ho svolto un lavoro che non avevo mai fatto in vita mia e conosciuto delle persone stupende.
Piano piano mi sto rendendo conto di come la parentesi Sud Americana stia volgendo al termine.