La mia breve parentesi spagnola, di poco meno di un mese, passata a lavorare come volontario in un ostello di Cordoba, mi aveva aiutato a riflettere e ad allontanarmi un attimo dal clima soffocante di Milano. Avevo avuto il tempo di prendere carta e penna e programmare i prossimi spostamenti per il proseguo del mio anno sabbatico.

L’idea era sempre quella di seguire la logica che mi aveva fatto lasciare l’italia sette mesi prima per il Sud America: lavorare come volontario in fondazioni o organizzazioni nei paesi in via di sviluppo.

La prima tappa sarebbe stata l’Uganda, un piccolo paese del centro Africa, dove mi sarei fermato per poco piu’ di un mese. Come prima di ogni esperienza non avevo la benche’ minima idea di quello che mi avrebbe aspettato al mio arrivo, sapevo solamente due cose: che la fondazione si chiama “Gayela Children Foundation” e che si trova a qualche decina di chilometri dalla seconda citta’ piu’ grande del paese, Jinja.

L’Uganda

Il 12 febbraio, dopo due voli, in compagnia del mio inseparabile zaino da 8Kg, ero arrivato a Entebbe, l’aeroporto della capitale.

Dopo aver incontrato il capo del progetto, Ema, ci siamo diretti verso Bujagali, la sede della fondazione. Nonostante il percorso fosse solo di 100Km, a causa di un errore del guidatore che ci aveva fatto passare attraverso un trafficato mercato di Kampala (capitale e terza citta’ piu’ trafficata al mondo), avevamo impiegato poco  piu’ di sette ore a percorrerli.

Kampala

Ero finalmente arrivato in Africa: lunghe strade sterrate e dissestate contraddistinte dal solito terribile traffico e da lunghe file di baracche in legno che si estendono a vista d’occhio su entrambi i lati. Nonostante fossi stato molto colpito dalla vista e dalla difficile condizione in cui vivono le persone, questa volta, diversamente dal mio arrivo in Peru’, ero preparato e non caddi nella fatidica sindrome del viaggiatore solo.

Dopo una giornata intensissima ero finalmente arrivato nella sede del progetto e mi ero presentato ai bambini dell’associazione: diciotto bambini con eta’ tra i 3 e i 12 anni che nel vedermi mi si erano letteralmente lanciati verso di me abbracciandomi e presentandosi. Ero veramente felice dopo una cosi’ calda accoglienza, che mai mi sarei immaginato quello che l’imprevedibile futuro avrebbe avuto in serbo per me e per gli altri volontari.

Con i volontari e alcuni dei bambini

Ero giunto nel momento peggiore possibile, quello dello scoppio di una faida familiare che si stava portando avanti da mesi, tra il capo dell’associazione e sua suocera (la proprietaria delle abitazioni in cui era stata istituita la fondazione). Questo litigio si e’ protratto per piu’ di una settimana tra minacce e ricatti. Noi volontari (io, una brasiliana e uno spagnolo) eravamo stati vigliaccamente messi al centro e venivamo usati come oggetto di scontro da ambo i lati, non considerati come persone venute ad aiutare ma solamente per portare denaro. Questo ci fece mettere in discussione, fin da subito, l’obbiettivo del progetto e la nostra permanenza nell’associazione: eravamo venuti fin qua per aiutare i bambini e non per rimanere con le mani in mano per la mancanza di attivita’ (interrotte a causa delle liti).

Nei primi giorni ho potuto conoscere bene i bambini e la piccola comunita’ di Bujagali, situata lungo il Nilo. Qui le persone mi si rivolgevano con l’appellativo di MUZUNGU (uomo bianco), in segno di diffidenza.  Ancora una volta mi resi conto di come siano differenti i bambini rispetto agli adulti, per loro siamo tutti uguali indipendentemente dal colore della pelle e dall’etnia. Che tu sia alto o basso, bianco o nero fa lo stesso, perche’ per loro sarai sempre un amico, un fratello.

Gia’ da subito quando andavamo a scuola o in chiesa (ebbene si’, ho dovuto anche partecipare alla messa in lingua locale, il Lussoga) i bambini correvano verso di me e facevano a gara per tenermi per mano o o per essere presi in braccio. Quando passavamo vicino a delle case venivamo subito accolti da una folla di bambini che, nonostante non ci avessero mai visti prima, ci salutavano sorridendo e ridendo e nella maggior parte dei casi si avvicinavano per prenderci una mano.  

Le mattine, quando non partecipavamo a riunioni dell’ultimo minuto dovute all’aggravarsi del conflitto, portavamo i bambini a scuola  o nei weekend facevamo delle attivita’ sportive (calcio e pallavolo) o didattiche con loro.

Nel pomeriggio, dopo aver pranzato con il tradizionale matoque e posho, aiutavamo i bambini a fare i compiti e li portavamo a fare dei giri a piedi seguiti dai due immancabili cani: Robert e Gaddafi (omonimo del ex leader libico).

Fin dai primi giorni rimasi sbalordito da questa nuova cultura cosi’ genuina e lontana dalla mia e dalle norme e usanze del posto. Fin da piccolo al bambino veniva insegnato il rispetto, ogni volta che incontra una persona adulta le si inchina davanti, e la dedizione al lavoro, fin dalla tenere eta’ gli vengono affidati piccoli lavori come il lavare a mano i propri vestiti, pulire la sua stanza e tagliare frutta e verdura. Durante i pasti si sedevano per terra, uno vicino all’altro, mangiando con le mani.

Alloggiavamo, noi volontari con alcuni bambini che erano stati lasciati in affido alla fondazione, in una caratteristica casa africana: senza acqua corrente, quella che c’era era acqua piovana proveniente da alcune cisterne poste sotto le grondaie, ma almeno con l’ettricita’, anche se questa funzionava a giorni alterni. I bagni erano all’esterno delle abitazioni ed erano stati scavati nella terra mentre per la doccia, dovevamo andare in un camping distante 10 minuti a piedi.

La casa
Il bagno

La porta del camping segnava il passaggio tra due mondi differenti, quello interno fatto di agi e tranquillita’ frequentato dai Muzungu (gli uomini bianchi), mentre quello all’esterno fatto di privazioni e genuinita’. Era veramente surreale il drastico cambio in cosi’ pochi metri.

Vista del Nilo dal Camping

E’ stata un’esperienza che nonostante non sia andata secondo le previsioni (ma quale le rispetta mai?!), in pochi giorni mi ha fatto conoscere un’altra cultura completamente diversa dalla mia e fatto capire di come sia possibile vivere veramente con niente e allo stesso tempo essere felice.

A malincuore, con tre settimane d’anticipo e dovendo lasciare questi splendidi bambini, ho dovuto rimettermi lo zaino sulle spalle per spostarmi piu’ a Sud, alla ricerca, questa volta, di un un luogo in cui veramente poter fare la differenza.