Un anno fa esatto, il 12 luglio del 2019, sono partito. Mi ricordo ancora gli ultimi attimi prima della partenza quando, salutata per l’ultima volta la mia famiglia, ero salito sull’aereo.
Pochi minuti per dare inizio a questa follia. Abbandonare il porto e lasciarsi trasportare dalla corrente.
Quattro mesi e mezzo per organizzare, decidere e autoconvincermi che quello che stavo facendo non era una stupidaggine.
Ormai non potevo piu’ tornare indietro. Il “danno”, come in molti avranno pensato in quei mesi, era ormai fatto.
Ero tranquillo. Aveva senso preoccuparsi? Non sapevo lo spagnolo, dove esattamente sarei rimasto e per quanto tempo. Tante, forse troppe incognite.
Pero’ non era forse questo quello che stavo cercando? Mettermi finalmente in gioco e osare dopo cinque lunghi e faticosi anni di liceo. Non mi sentivo di certo pronto a partire, chi lo sarebbe stato? Sentivo che dovevo partire, per cambiare e crescere.
Da quel momento il percorso di “rinascita” poteva avere inizio.
Quattro mesi trascorsi a Pampacangallo, un piccolo paesino peruviano disperso nell’altopiano andino a lavorare come volontario. Un lungo periodo trascorso ad aiutare chi piu’ ne aveva bisogno e a conoscermi meglio.

Ero passato da essere visto come un gringo, uno straniero diverso per cultura e aspetto fisico, a diventare uno di loro. Trascorrevo le mattine a preparare il pranzo alla mensa locale e il pomeriggio a gestire attivita’ per i bambini e i ragazzi del posto. Ogni mercoledi’ appuntamento fisso al mercato dove, per racimolare qualche soldo, vendevo pizze.

Da li’ al caldo e irrequieto Cile, lavorando come manutentore in un parco di riciclaggio nel centro del deserto di Antofagasta. Decisione presa in poco tempo dopo i saccheggi e i disordini a Santiago, dove avevo trovato inizialmente lavoro.

All’improvviso mi ero reso conto di quanto fossi fragile e quanto imprevedibili e destabilizzanti potessero essere gli imprevisti. Da un momento all’altro mi ero ritrovato, per quasi quattro giorni, bloccato nel parco dopo che la citta’ era stata presa d’assalto dai manifestanti.
Per proseguire fino a La Plata, cittadina universitaria poco distante da Buenos Aires, per lavorare come receptionista in un ostello. Arrivato da solo e senza conoscere nessuno e partito lasciando una vera e propria famiglia.

Poi Rio de Janeiro, ospite da Leo nel limite nord della citta’ utilizzando couchsurfing. Una settimana per conoscere la vera Rio e il popolo brasiliano. Citta’ splendida con tanti, forse troppi pregiudizi.
Infine il ritorno a casa. Dopo sei lunghi mesi ero tornato. Pieno di sentimenti contrastanti, la voglia di rivedere parenti e amici ma anche di ripartire il prima possibile. Mi sentivo come un pedina che, tolta dallo scacchiere, non riusciva piu’ a trovare il suo posto.
Dopo nemmeno tre settimane ero ripartito per l’Andalusia, a Cordoba, per lavorare come tuttofare in un ostello. Un mese trascorso a pianificare e incontrare tanti viaggiatori.
Poi l’Africa. Forse l’esperienza piu’ forte e cruda in assoluto. Da solo, in compagnia del mio inseparabile zaino, verso questo continente cosi’ grande e vivo.
Per la prima volta mi ero sentito cosi’ vulnerabile, un piccolo granello di sabbia in un deserto.
Prima in Uganda ad aiutare i bambini di una fondazione. Un’esperienza toccante che mi aveva lasciato l’amaro in bocca e fatto vedere quanto le persone potessero essere spregevoli.

Da li’ in Tanzania. Questa volta allo sbaraglio piu’ totale. Mi ero ritrovato in un piccolo villaggio nel territorio della tribu’ Masai. Uno dei luoghi piu’ poveri e sofferenti dell’Africa. Due settimane a insegnare l’inglese e a gestire attivita’ per i ragazzi del posto.


Un’esperienza che mi ha insegnato veramente tanto e fatto vedere le cose da un’altra prospettiva: con un solo piccolo e vecchio pallone si accendeva il sorriso sui loro volti. Tanta sofferenza ma anche entusiasmo e ottimismo.
Poi un blackout improvviso, la pandemia. Che fare, tornare? Rimanere?
Dopo giorni di indecisione sul da farsi, la scelta di tornare il prima possibile in Europa. I confini Italiani erano ormai chiusi, non mi era rimasto altro che tornare in Spagna.
Da li’, la lunga e travagliata quarantena in terra spagnola. In poco meno di tre mesi sei “case” cambiate. Dall’ostello che, chiuso improvvisamente aveva lasciato i volontari al loro destino, fino all’ultima casa.
Mesi trascorsi con dei perfetti sconosciuti prima di allora diventati poi come fratelli: Nadia, disegnatrice grafica argentina, e Colin, rapper belga.

Poi il ritorno in Italia.
Tante avventure ed emozioni. Dodici mesi trascorsi a vivere in ogni differente situazione economica e sociale: dalla ricchezza delle grandi citta’ sudamericane, la ribellione del popolo cileno alla vera poverta’ in Africa.
Ogni ecosistema naturale: dalle Ande peruviane, il deserto cileno, la Patagonia, la foresta tropicale in Uganda e per finire la savana della Tanzania.

Tante belle persone conosciute che mi hanno fatto sentire a casa anche quando casa mia era dall’altra parte del globo. Diventati dopo pochi giorni amici, fratelli.
Una decisione veramente difficile presa piu’ di un anno fa che assolutamente non mi pento di aver preso. Mesi vissuti a contatto con culture diverse che mai avrei pensato di conoscere. Passato da essere un gringo o un mzungu a diventare uno di loro.
Un’esperienza molto forte che inevitabilmente mi ha obbligato a crescere e cambiare, mettermi davanti a me stesso e accettarmi per come sono.
“Non si e’ mai pronti finche’ non si decide di essere pronti”.
Buen viaje!
Alessandro
È un luogo comune come tanti che “i giovani d’oggi non vogliono impegnarsi”. Non è assolutamente vero e tu ne sei la prova. Complimenti, ti auguro una vita felice piena di emozioni positive.
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